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Selvaggi, filosofi e colonialismo

Parte 2



Dando un’occhiata alle argomentazioni di Vico, abbiamo concluso che gli individui con cui dovettero interfacciarsi i colonizzatori occidentali non facevano parte di una specie umana diversa dalla loro o inferiore agli europei in tale o tal’altro aspetto, quanto piuttosto erano un popolo rimasto per così dire “indietro” rispetto a chi lo osservava e vi interagiva. Agli occhi dei colonizzatori si offriva un’opportunità unica: spiare scorci della propria storia da una finestra sul tempo e assistere non allo sviluppo di qualcosa di totalmente altro, ma al percorrere da parte di una civiltà alcuni passi che i loro stessi antenati avevano compiuto. Sulla base di queste premesse l’unico “primato”, se così vogliamo chiamarlo, della civiltà occidentale sarebbe stato l’entrare nella storia con un largo anticipo su altri gruppi umani. Tutto questo concorre a delineare un argomento specifico: laddove l’ipotesi di un Expanding Circle prevede di considerare anche animali non umani come portatori di interessi, a questo si arriva soltanto attraverso un’operazione preliminare. Questo passaggio intermedio (un anello mancante, in qualche modo) prevede di estendere la cerchia di interessi degni di considerazione morale prima di tutto ad altri esseri umani.


A questo punto è lecito passare alla nostra seconda tappa, ovvero al Discorso sull’origine della disuguaglianza (Milano, Bompiani, 2012, I edizione, traduzione a cura di Diego Giordano) di Rousseau. Partendo dal presupposto che lo stato dell’umanità sia cambiato nel tempo (ed a riprova di ciò è possibile portare il fatto che, proprio in virtù di quanto abbiamo finora evidenziato analizzando il testo di Vico, dalla scoperta del continente americano in avanti è stato necessario almeno per gli Europei rendere conto del perché oltre l’Oceano Atlantico vivessero esseri umani simili a loro) e che la norma naturale vorrebbe l’assenza di mutamenti, rimane da capire e rendere conto di come la disuguaglianza tra gli uomini sia stata originata. Diamo innanzitutto un’occhiata all’uomo nello stato di natura secondo Rousseau (ivi, p. 165):


"[…] l’uomo selvaggio, che erra nelle foreste, senza industria, senza favella, senza dimora, senza guerra e senza legami, senza avere alcun bisogno dei propri simili, come pure senza aver alcun desiderio di nuocere loro, forse persino incapace di riconoscerne individualmente qualcuno, soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a questo stato; sentiva solo i suoi veri bisogni, guardava soltanto ciò che credeva gli interessasse di vedere, e la sua intelligenza non faceva più progressi della sua curiosità. Se per caso faceva qualche scoperta, non poteva in alcun modo comunicarla, visto che non riconosceva neppure i suoi figli. L’arte periva con l’inventore. Non c’era né educazione né progresso; le generazioni si moltiplicavano inutilmente; e poiché ciascuno partiva sempre dallo stesso punto, i secoli trascorrevano mantenendo tutta la rozzezza delle prime età, la specie era già vecchia, e l’uomo restava sempre un fanciullo." Anticipando la risposta, la disuguaglianza e la società civile sarebbero nate con il primo uomo che chiamò “mio” un qualunque oggetto e convinse altri della verità di tale asserzione. Indagare come si sia arrivati a questo punto (e come da esso si sia poi approdati a disuguaglianze di ben maggiore tenore, più avanti nel tempo) non è strettamente necessario, ai fini del nostro argomento. Basti affermare che il processo di uscita dallo stato di natura è, secondo Rousseau, causato da svariati fattori distinti e solo casualmente trovatisi in gioco nello stesso momento; la casualità intrinseca in questo concorso di forze impedisce di definirlo “filosofia della storia”. L’approdo alla disuguaglianza, magnificata ed espansa nel corso dei secoli, è il risultato di una contingenza; sarebbe, dunque, potuta non essere. Sintetizzando al massimo, la disuguaglianza tra gli uomini si da secondo Rousseau a partire da abilità ed inabilità individuali degli uomini, su cui si innestano differenze contingenti dovute al caso o alle circostanze. Dove si trova il discrimine tra differenza e disuguaglianza, però? Il punto chiave è che la seconda è una situazione che origina una gerarchia, e che presuppone un rapporto continuativo: non si può essere diseguali in solitudine, serve un secondo termine di paragone rispetto al quale si è diseguali. Nel tempo, quella che inizialmente era solo la combinazione di differenze naturali e contingenze storiche si cristallizzerebbe in disuguaglianza “propriamente detta” in virtù della progressiva scomparsa delle cause e dei fenomeni esterni al controllo dell’uomo, allargando nel frattempo lo iato tra i due estremi della disuguaglianza stessa e la trasforma in vera e propria subordinazione (ivi, p. 99). La domanda a questo punto diventa: come è possibile che gli esseri umani accettino una situazione del genere, arrivando da uno stato di natura in cui il concetto stesso di “essere subordinato” risulta assurdo? Essenzialmente attraverso la paura, che la disuguaglianza crea ed attraverso cui persuade a sacrificare la libertà in nome della sicurezza (ivi, pp. 205-207). Qui è possibile, per l’abitudine, innestarsi: la servitù viene lasciata aumentare in nome di una tranquillità ormai consolidata e di cui si è dipendenti (ivi, p. 227-229). Col tempo si accetta il gioco di alcuni senza poter incatenare a propria volta altri. Si passa a desiderare la disuguaglianza e la dominazione altrui nella speranza di rivalersi ed essere, a propria volta, piccoli dominatori. Si arriva così all’assurda situazione in cui moltitudini di oppressi a propria volta opprimono. La soluzione offerta da Rousseau a questo problema è la presenza di un punto di vista totalmente altro: uno sguardo dall’esterno potrebbe sovvertire e scuotere le fondamenta del sistema (ivi, p.241-243).

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