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Immagine del redattoreAlessio Nardi

ORVIETO: UNA CANTINA SOTTERANEA

Immaginatevi di trovarvi esattamente nel centro della Riserva Mondiale Biosfera UNESCO del Monte Peglia. Ora, se dovessimo partire per un viaggio alla scoperta delle eccellenze vinicole, percorrendo le ondulate colline coperte da grano, verdi oliveti secolari, rigogliose foreste latifoglie e puzzle infiniti di vigneti, voi, da dove comincereste? Io partirei dal posto più vicino. Beh, ci siete letteralmente dentro. State passeggiando nei territori di produzione dell’Orvieto DOC, dove come nessun’altra realtà in Umbria, il vino scorre e si incanala, attraverso le venature del giallastro tufo vulcanico, fin dalla dominazione etrusca di Vezna (nome etrusco di Orvieto). Non è un caso se Piero Vannucci, detto il Perugino, pretese che parte del compenso per gli ingenti lavori al Duomo di Orvieto, fosse tramutato in vino locale. Ma fu dal settecento che si consolida la fame dei vini orvietani, tale da renderli i preferiti della corte Ponteficia. Si dica anche, che Giuseppe Garibaldi abbia brindato con un bicchiere d’Orvieto all’attesa Unità.

Gli Etruschi quindi, imposero i princìpi della viticoltura nell’ Etruria, fin dal XII secolo a.c., coltivando la vite selvatica (Vitis vinifera sylvestris), proprio come la vedevano crescere in natura, quindi arrampicata e intrecciata sposandosi con i tronchi e rami di pioppi, gelsi, olmi, aceri e ovviamente olivi. La “vite maritata” quindi, rimase il sistema di allevamento più diffuso in tutta l’Etruria, dove è tuttora possibile notare tra le campagne umbre. Gli Etruschi scavarono grotte nel tufo nelle colline intorno e sotto la città di Vezna, con un sistema enologico avanzato e avveniristico, basandosi sulla vinificazione per gravità (attualmente utilizzata per produzioni di qualità), dove l’uva veniva pigiata a livello del suolo, per terminare la fermentazione nel livello più basso in grotte scavate nel terreno, e poi trasferito tramite tubi di argilla nei luoghi di conservazioni più in profondità. Il risultato, non era di certo quello da cui ci si potrebbe aspettare da un Orvieto Classico profumato e minerale, ma di un qualcosa più dolce e aromatizzato, magari da sorseggiare davanti al fuoco autunnale di un camino.

Fu il Prof. Garavani nel 1931 su incarico del Ministero, a delimitare l’areale orvietano, notando la naturale eccellenza della Denominazione, promossa principalmente grazie a un vino, il cui vanto è destinato a pochi diletti in tutto il mondo: l’Orvieto Classico Muffa Nobile, ottenuto da uva attaccate dal fungo Botrytis cinerea (ma questa è un’altra storia). Ma è nel 1971, che viene riconosciuta la DOC (Denominazione di Origine Controllata) Orvieto, riconoscendo la qualità e l’appartenenza ad un territorio e un’antica storia, attraverso un rigido controllo disciplinare. Il Rosso Orvietano è un vino ottenuto principalmente da uve di Aleatico, Canaiolo, Ciliegiolo (anche questa è un’altra storia), non può mancare il Sangiovese e vitigni internazionali prodotti in purezza o usati congiuntamente per almeno il 70%. A differenza del cugino di Montefalco, qui il Rosso è setoso, morbido e vellutato, con tannini dolci ma soddisfacenti. Poi troviamo il Re indiscusso di tutta l’Etruria: l’Orvieto DOC ottenuto da uve di Procanico e/o Grechetto (Clone G109, non assimilabile al Grechetto di Todi. Sì, è un’altra storia). Che, più che un vino, è un concentrato di terroir. Ed è proprio questo il segreto che si rinchiude in un vino giallo paglierino brillante, delicato, talvolta grasso e minerale, avvolgente e pulito.

Ecco, io ho cercato di rinchiudere in queste umili righe, una delle più antiche storie enologiche d’Italia. E concludendo con una citazione forse, del più grande narratore di vino italiano, che è Mario Soldati, raccontando di quando in una Pasqua del 1976, aprì il miglior Orvieto in suo possesso, e di come (il vino), gli sembrasse dispiaciuto di trovarsi più in là, dall’aria insostituibile delle sue morbide rocce. Ora, io vi dirò invece, che quando vi ritroverete nel vostro ristorante preferito ad annusare dentro un calice di Orvieto Classico Superiore, un po' di quell’aria insostituibile, la potrete sentire. Ma, se non volete prendervi quel rischio, non vi resta che partire.


Dott. Alessio Nardi

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