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Selvaggi, filosofi e colonialismo

Aggiornamento: 17 lug 2020

Parte 1

L’esplorazione e la colonizzazione del continente americano da parte delle potenze Europee ebbero inizio nel sedicesimo secolo e trovarono definitiva conclusione entro la fine del diciannovesimo secolo, con la conquista del Far West da parte degli Stati Uniti d’America. In parallelo a quest’immenso movimento di uomini e risorse, le potenze d’Europa si lanciarono anche in altre direzioni. In virtù dell’assenza di progressi ed innovazioni paragonabili a quelli ottenuti dall’Europa del tempo (almeno sotto il profilo tecnologico, scientifico e tecnico) da parte di popolazioni “altre” venne supposta un’evidente inferiorità di tali popoli rispetto all’Europa, almeno uno di tali propositi divenne la necessità (ed il dovere, perfino) degli Europei di educare e civilizzare i selvaggi. Come i filosofi reagirono all’esistenza del nuovo mondo e come pensarono i cosiddetti “selvaggi” è quanto cercheremo di appurare. Analizzare l’intera produzione filosofica sull’argomento dalla scoperta dell’America alla fine del diciannovesimo secolo sarebbe, tuttavia, decisamente difficile; concentrarsi solamente su alcuni autori che discussero l’argomento, ovvero Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 - Napoli, 23 gennaio 1744), Jean Jacques Rousseau (Ginevra, 28 giugno 1712 - Ermenonville, 2 luglio 1778) e Denis Diderot (Langres, 5 ottobre 1713 - Parigi, 31 luglio 1784), per mezzo di alcuni specifici testi risulterebbe sicuramente più semplice e gestibile, ed è ciò che avverrà. La speranza è che attraverso di essi si possa approdare ad un punto di vista sui colonizzati diverso da quello comunemente diffuso ed accettato, un porto sicuro di qualche tipo per sfuggire ai flutti del mainstream culturale dell’epoca.



Per semplicità, procederemo analizzando come prima tappa i Principi di scienza nuova (Milano, Oscar Mondadori, 2011, VII edizione) di Vico. Ciò che ci interessa in particolare di questo testo sono l’idea della storia come prospettiva variabile in base al punto d’osservazione (che si traduce in datazioni differenti operate da popolazioni differenti), da un lato, e il principio dei corsi e dei ricorsi a cui la storia dei popoli può risultare soggetta. La presenza di questi primi due punti ci permetterà di costruire un framework di sorta entro cui muoverci nel corso dell’analisi degli altri due testi che osserveremo (e che, almeno idealmente, dovrebbero consentirci di esplorare un punto di vista altro dal già citato mainstream culturale che vedeva nei non-Europei solamente dei selvaggi).

Il fine di Vico nei Principi di scienza nuova è quello di conoscere lo stato delle nazioni passate, presenti e (nei limiti del possibile) future. Ciò che ci interessa è che in apertura del testo vengono messe a confronto le storie delle nazioni, operando una selezione di avvenimenti di particolare rilevanza ed organizzandoli in un contesto unico ed eliminando l’informità ed elusività proprie dell’oggetto che ci si propone di studiare. Questa tavola cronologica analizza un intervallo di tempo che andrebbe dal diluvio universale di biblica memoria alla seconda guerra punica. Lì viene introdotta un’idea interessante: che non tutti i popoli presentati al suo interno siano approdati al medesimo livello di sviluppo (con particolare attenzione, da parte nostra, allo sviluppo europeo da un lato ed a quello delle civiltà native americane dall’altro) nello stesso momento non sembra essere secondo Vico una conseguenza di diverse nature (che sarebbe stato semplice sfruttare per postulare la superiorità di una di esse sulle altre) quanto piuttosto un risultato del fatto che non tutte le “storie” propriamente dette dei vari popoli sono iniziate nello stesso momento. La storia dei popoli, secondo Vico, è divisa in tre tronconi: un tempo oscuro (l’età degli dei), uno favoloso (l’età degli eroi) ed uno storico (l’età degli uomini) (ivi, p. 72). Vico sembra, in questo contesto, ipotizzare l’idea dell’esclusiva conoscibilità a posteriori della storia: non sarebbe possibile conoscere la storia “in tempo reale” in quanto la narrazione degli eventi deve essere di necessità posteriore agli eventi stessi. Di quanto (ipoteticamente) avvenuto nei primi due tempi della storia si ha minore consapevolezza in quanto contenuti e forma delle testimonianze sono si logici, ma ardui da comprendere e decodificare. Ciò sarebbe dovuto alla presenza di più pensieri logici in conflitto: quello di chi produsse fisicamente la testimonianza, da un lato, e la logica di coloro che dovettero interpretarla (a posteriori, quindi), dall’altro. Per dare inizio alla storia delle nazioni con l’età degli dei sarà necessario un evento teorico particolare, capace di stupire e terrorizzare un’umanità imbestialita ed immersa in quello che si potrebbe indicare come stato di natura: il fulmine (ivi, p. 377). Per mezzo del timore per il fulmine, secondo Vico, gli uomini primordiali verranno condotti progressivamente fuori dallo stato di natura attraverso la formulazione delle idee di provvidenza, religione e divinazione, il progressivo abbandono del nomadismo (che condurrà allo sviluppo del concetto di proprietà) e l’istituzione della sepoltura dei morti come metodo per sancire l’appartenenza di un dato luogo ad un certo gruppo. Il fenomeno del fulmine, tuttavia, non interessa la totalità del genere umano nello stesso momento quanto piuttosto singoli manipoli in diversi tempi e luoghi: l’umanizzazione del genere umano “barbaro”, dunque, non comincia per tutti nello stesso momento. Abbandonata l’età degli dei ed entrati in quella degli eroi, quei primi esseri umani iniziarono a dominare la natura; con questo passaggio si pongono i presupposti per il passaggio dalla famiglia di sangue ad una “allargata”; solo in un secondo momento, e previa conflitto con altri gruppi umani rimasti ferali, alla società in via di sviluppo verranno ammessi anche coloro tra i selvaggi che si sottometteranno al nuovo ordine in nome dell’utilità comune. Sarà poi proprio la natura riottosa di questi ultimi verso gli eroi a far compiere nuovi passi avanti alla civiltà umana, poiché porterà alla coalizione di varie famiglie nelle prime repubbliche e città in un tentativo da parte degli ormai nobili di mantenere in scacco le classi sociali subordinate che porterà questi ultimi ad acquisire (un passo alla volta) l’umanità per mezzo di una dialettica continua in cui gli ultimi otterranno sempre più dai primi.


Quegli individui con cui dovettero interfacciarsi i colonizzatori occidentali non erano una specie umana diversa, inferiore agli europei in tale o tal’altro aspetto, quanto piuttosto un popolo rimasto per così dire “indietro” rispetto a chi lo osservava e vi interagiva. Al netto dei corsi e ricorsi tanto cari a Vico, dunque, gli indigeni americani offrivano in questo l’opportunità unica ai colonizzatori: guardare attraverso una finestra sul tempo e assistere non allo sviluppo di qualcosa di totalmente altro, ma al percorrere da parte di una civiltà alcuni passi che i loro stessi antenati avevano compiuto. Sulla base di queste premesse l’unico “primato”, se così vogliamo chiamarlo, della civiltà occidentale sarebbe stato l’entrare nella storia con un largo anticipo su altri gruppi umani.

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