Perché "coevoluzione" non è una parolaccia
Gli esservi viventi intessono relazioni tra loro, che si tratti di membri della stessa specie o di specie diverse. Alcune sono plateali e dirette (le interazioni tra preda e predatore, per dirne una), altre meno evidenti (la necessità di ossigeno di buona parte del mondo animale, prodotto dalle piante attraverso la fotosintesi). A partire da questo assunto nasce la nozione di ecosistema, definito come l'insieme degli organismi viventi e della materia non vivente che interagiscono in un determinato ambiente costituendo un sistema autosufficiente e in equilibrio dinamico. La stessa domesticazione degli animali da parte dell’essere umano (sorvolando sul fatto che non si tratti di un comportamento specifico o esclusivo degli esseri umani) si è giocata su un sistema di interazioni che hanno portato alla selezione di tratti considerati genericamente “utili” attraverso l’incrocio riproduttivo di animali che possedevano tali caratteristiche, ed oggi continua attraverso l’individuazione diretta dei tratti desiderati per via genetica (oltre alla loro eventuale manipolazione o modificazione). La storia di Homo Sapiens è dunque, anche, storia dell’interazione tra la nostra specie e le altre che l’hanno affiancata nel corso del tempo.
Emerge così la nozione di coevoluzione, che può essere agonistica (come nel caso delle già citate interazioni tra preda e predatore, in cui si verifica una sorta di corsa agli armamenti che vede “premiati” dalla selezione i tratti che permettono alla preda di sfuggire al predatore e viceversa) o mutualistica (nel qual caso individui diversi si adattano per reciproca convenienza finendo almeno idealmente per operare in concerto) e che non risparmia la specie Homo Sapiens. Il fenomeno della coevoluzione è anche ciò che ci permette di giustificare la domesticazione di certe specie animali come qualcosa di diverso da una decisione volontaria di un qualche antenato dell’essere umano moderno, che in qualche modo decise di “sfruttare” un predecessore del cane (per esempio) per i propri obiettivi. E’ più probabile che un primo contatto sia avvenuto in maniera casuale e contingente, e che solamente in seguito (ed in maniera altrettanto contingente e storicamente determinata) la relazione si sia stabilizzata in quanto vantaggiosa per entrambe le parti.
Laddove la coevoluzione mutualistica ci permette di giustificare (almeno sul piano della congettura) l’inizio per la domesticazione di animali da parte dell’umanità, ci offre anche la possibilità di intravedere un punto di partenza per le interazioni tra gli antenati degli esseri umani. Quelle abilità che sono richieste per entrare in relazione con animali (umani o non umani che siano) sono anch’esse frutto di evoluzione biologia ed è almeno possibile si siano sviluppate in parallelo, affinando via via la nostra percezione delle intenzioni dell’altro (che si tratti di un cane o di un nostro simile); questo perché Homo Sapiens discende da una serie di primati estinti, inizialmente frugivori. Questo dato, assieme alla mancanza di caratteristiche proprie di predatori carnivori negli antenati della nostra specie, ci permette di congetturare che il consumo di carne sia subentrato come un’integrazione successiva ed inizialmente contingente ad una dieta vegetale. Dove gli esordi di questo processo potrebbero essere stati lo spoglio di carcasse già morte, la predazione sistematica di animali è un passaggio reso possibile soltanto attraverso la produzione di utensili per compensare i limiti offensivi strutturali degli ominidi e la capacità di coordinamento di gruppi di cacciatori.
Citando Simone Pollo (professore associato di Bioetica presso l’università La Sapienza di Roma) in Umani e animali: questioni di etica (Roma, Carocci editore, ottobre 2016), possiamo affermare che quelle “[…] capacità che oggi consentono, ad esempio, ai giocatori di una squadra di pallacanestro di posizionarsi correttamente sul campo da gioco sono le stesse (o un loro successore più complesso) che consentivano ai nostri antenati di inseguire, accerchiare ed uccidere una grossa preda. Allo stesso modo, quel che oggi ci consente di capire che è meglio stare alla larga da un cane incontrato per strada che mostra i denti è ciò che rendeva possibile ai nostri antenati intuire le intenzioni delle loro prede e cercare di anticiparne le mosse” (Pollo S., Umani e animali: questioni di etica, pp. 21-22). E’ inoltre possibile che queste stesse capacità non abbiano rappresentato un vicolo cieco dal punto di vista evolutivo, quanto piuttosto una fondazione che avrebbe favorito lo sviluppo di altri aspetti della vita considerati intrinsecamente “umani”, quali il linguaggio o le capacità simboliche. Laddove esistono punti di vista che vorrebbero gli esseri umani separati (ed in un certo senso superiori, alternativamente per diritto di nascita o per ragioni storiche o evolutive) al resto del mondo animale, vale la pena ricordare che “Gli animali hanno abitato e abitano la nostra cultura in molti modi. Sono stati […] i primi soggetti delle rappresentazioni artistiche. Animale è l’aspetto di molte divinità religiose. Animali sono molti personaggi delle fiabe che raccontiamo ai bambini e zoomorfi sono spesso i protagonisti delle più recenti forme di narrazione, fumetti e cartoni animati.” (Pollo S., Umani e animali: questioni di etica, pp. 23-24). E’ almeno difficile, dunque, ascrivere soltanto agli antenati dell’umanità il merito (se di merito si vuol parlare) di averci portato ad essere quello che siamo qui ed ora.
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